Lillo S. Bruccoleri
L’incontro ad alto livello che ieri si è svolto nello studio di Enrico Mentana tra Matteo Renzi (entrambi con la cravatta nera in omaggio a Shimon Peres) e Gustavo Zagrebelsky ha avuto a oggetto la riforma costituzionale su cui il popolo dovrà pronunciarsi nella domenica del prossimo 4 dicembre. Si è parlato a lungo sfiorando numerosi aspetti di principio senza riuscire a entrare nel vivo degli argomenti specifici. Chi si aspettava un dibattito chiarificatore sull’impianto giuridico della nuova costituzione è rimasto deluso; una volta data la prevalenza ai discorsi politici l’insigne giurista era battuto in partenza.
Proviamo a immaginare un dibattito depurato dalle notazioni politiche la cui preminenza è sì fondamentale nella vita e nella definizione stessa di una società organizzata, ma poco pertinente nell’alveo della puntuale disamina di un testo normativo sotto l’aspetto giuridico. Appare francamente inappropriato l’avvio della discussione sulla spinta delle piagnucolose rimostranze dinanzi alle definizioni di gufi o parrucconi o delle accuse di facile demagogia che peraltro suonano offensive nei riguardi di un popolo che, quand’anche fosse disinformato o ingenuo, è sempre l’unico titolare della sovranità. Né sembrano utili le bizantine discettazioni sui meccanismi procedurali escogitati per mantenere in vita un bicameralismo dimidiato con l’attribuzione parziale del potere decisionale alla seconda camera detta alta e pieno alla prima detta bassa.
Tralasciamo pure ogni accenno alla fonte di produzione del diritto che senza remore di pudore non viene abbastanza evidenziato e che consiste nell’esercizio del potere costituente da parte di un parlamento eletto con una legge incostituzionale in nome del principio di continuità. In fondo il ricorso al giudizio popolare assume anche una valenza correttiva sotto questo aspetto, ma occorre almeno che l’informazione sia completa sulla sostanza dei problemi.
Il dissidio è sempre lo stesso e si riassume nelle contrapposte esigenze di efficienza e di legalità ovvero di democrazia. Si tratta di valutare se la stabilità governativa, condizione di normalità interna e di credibilità internazionale, debba essere realizzata attraverso una massiccia rivisitazione della carta fondamentale piuttosto che attraverso strumenti meno traumatici e irreversibili.
Nel dettaglio, è necessario considerare l’attualità del principio della divisione dei poteri e dell’equilibrio tra gli organi costituzionali. Qui è l’insidia, perché, se è vero che resiste il rapporto fiduciario tra governo e un ramo del parlamento, questo viene formato in forza di una legge elettorale sulla quale gravano le incognite di possibili sbilanciamenti in termini di rappresentanza effettiva dei cittadini. Se ciò avvenisse tutto l’ordinamento sarebbe inficiato, dalla elezione del capo dello stato a quella dei giudici costituzionali, per limitarci alle due istituzioni configurate come suprema garanzia del corretto esercizio della funzione legislativa e, più in generale, del giusto funzionamento del sistema.
L’argomento è stato affrontato nel duello televisivo di ieri. Il nuovo senato è stato concepito come organo di rappresentanza delle autonomie territoriali che avrebbe anche l’effetto di deflazionare l’attività della corte costituzionale oggi chiamata con notevole frequenza a dirimere i conflitti tra le regioni; ma queste perderebbero la possibilità di far valere singolarmente i propri diritti e ciascuna sarebbe soffocata dalla prevalente volontà delle altre nella comune sede assembleare.
Le costituzioni, secondo una concezione tradizionale, stabiliscono i principi fondamentali che permeano l’ordinamento e per questo sono formulate con testi essenziali in cui l’elemento precettivo è ridotto al minimo indispensabile. Si è tuttavia delineata la tendenza inversa ad arricchirne i contenuti in ogni particolare per evitare applicazioni improprie; ed invero nella nostra tradizione gli esempi non mancano: basti pensare al ricorso smodato alla decretazione di urgenza o alla surrettizia introduzione nei testi legislativi di disposizioni estranee al loro oggetto.
La disciplina di questa materia diventa più restrittiva e rappresenta un aspetto positivo che può essere riconosciuto e che colpisce una prassi inveterata e ampiamente adottata dallo stesso governo in carica. Il problema però si pone a causa non della insufficienza delle norme costituzionali (nella specie l’articolo 77) ma dei comportamenti della classe politica che li ha superati introducendo e consolidando forme anomale di legiferazione quali le reiterazioni di decreti legge precedentemente decaduti o addirittura bocciati nella sede parlamentare.
Durante un confronto piuttosto lungo nelle sue cadenze temporali sembrava a un certo punto che si cominciasse finalmente a volare alto affrontando il tema cruciale della evoluzione della società e delle persone chiamate a esercitare concretamente la sovranità loro delegata dal popolo. Si tratta di mettere in guardia dalla illusione che una legge scritta possa migliorare l’intero tessuto sociale o, per converso, dal timore che l’effetto contrario possa derivare da intempestive novellazioni.
Il discorso si faceva a questo punto stimolante e istruttivo senza compromettere successivi approfondimenti di merito. Invece si è immiserito su improvvidi appiattimenti nelle tormentate dispute della contesa politica. Si è perduta un’occasione per gli italiani che meritano di meglio sol che lo si voglia; si è rinunciato ad affrontare una problematica di portata storica per scivolare nella cronaca quotidiana. All’insegna della semplificazione si è precipitati nel semplicismo, riducendo l’alternativa a una accettazione o a un rifiuto della trasformazione di un paese museo voluto dai nostalgici che vivono di ricordi in un paese proiettato nelle sfide del futuro vagheggiato dai riformatori che mirano al superamento del passato per correre nel mondo globale.
N° 23 Sabato 1 ottobre 2016