TAR per il Lazio – Roma: Sentenza per estratto sul quesito referendario

1778

Sentenza per estratto sul quesito referendario pronunciata dalla sezione seconda bis (presidente Elena Stanizzi) il 16 novembre 2016 e pubblicata il 22 successivo

SENTENZA

ex art. 60 del codice del processo amministrativo

sul ricorso numero di registro generale 10984 del 2016, proposto da:

Barbara Randazzo, rappresentata e difesa dall’avvocato Barbara Randazzo; Valerio Onida, rappresentato e difeso dall’avvocato Valerio Onida

contro

Presidenza della repubblica, non costituita in giudizio; presidenza del consiglio dei ministri, ministero dell’interno, ministero della giustizia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’avvocatura generale dello stato

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

Codacons, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Rienzi, Gino Giuliano;  Giuseppe Orlando, rappresentato e difeso dall’avvocato Lillo Salvatore Bruccoleri

ad opponendum:

Maria Rosaria Terrasi, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Pesce, Guido Corso

per l’annullamento del decreto del presidente della repubblica datato 27 settembre 2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 227 del 28 settembre 2016, di «indizione del referendum popolare confermativo della legge costituzionale recante: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo quinto della parte seconda della costituzione”, approvata dal parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016»; di ogni altro atto preliminare, connesso o consequenziale, previa, in quanto occorra, rimessione alla corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 23 della legge n. 87 del 1953, della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 1, 48 e 138 della costituzione, degli articoli 4, 12 e 16 della legge n. 352 del 1970, nella parte in cui non prevedono che, qualora la legge costituzionale sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo ed eterogeneo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti distinti – a cui l’elettore possa rispondere affermativamente o negativamente – quanti sono gli articoli o le parti della legge che abbiano oggetti omogenei;

         Visti il ricorso e i relativi allegati;

         Visto l’atto di costituzione in giudizio della presidenza del consiglio dei ministri, del ministero dell’interno e del ministero della giustizia;

         Visti gli atti di intervento ad adiuvandum del Codacons e del signor Giuseppe Orlando;

         Visto l’atto di intervento ad opponendum della signora Maria Rosaria Terrasi;

         Viste le memorie difensive;

         Visti tutti gli atti della causa;

         Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 novembre 2016 la dottoressa Elena Stanizzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

         Sentite le stesse parti ai sensi dell’articolo 60 codice processo amministrativo

FATTO

Con ricorso notificato in data 10 ottobre 2016 e depositato il successivo 11 ottobre 2016, gli odierni ricorrenti, nella loro dichiarata qualità di elettori, propongono azione impugnatoria avverso il decreto del presidente della repubblica datato 27 settembre 2016, con il quale è stato indetto il referendum popolare confermativo avente ad oggetto il seguente quesito: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo quinto della parte seconda della costituzione” approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?», disponendo la convocazione dei comizi elettorali per la data del 4 dicembre 2016. Dopo aver sinteticamente illustrato, nel suo svolgimento, il procedimento confluito nell’adozione del contestato decreto presidenziale ed avere ricondotto i presupposti della proposta azione, ovvero la legittimazione ad agire ed il relativo interesse, alla propria veste di cittadini elettori i cui diritti di voto – nella specie di libertà di voto e di consapevole espressione dello stesso – sarebbero irrimediabilmente compromessi dalle modalità di formulazione del quesito referendario, articolano i ricorrenti, a sostegno dell’azione impugnatoria, i seguenti motivi di censura.

  1. Violazione dell’art. 138 della Costituzione e della legge n. 352 del 1970 (articoli 3, 5 e 15). Eccesso di potere per sviamento

Sotto un primo profilo, denunciano i ricorrenti l’illegittimità della qualificazione del referendum – contenuta nel gravato decreto presidenziale – quale ‘confermativo’, sostenendo come tale qualifica non trovi alcun fondamento nella disciplina di riferimento, ed affermando invece come lo stesso dovrebbe essere qualificato come referendum ‘oppositivo’, in quanto asseritamente più rispondente alla ratio del referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, avente finalità di garanzia delle minoranze per i casi di approvazione parlamentare della legge inferiore ai due terzi, come confermato dalla mancata previsione di un quorum di validità.

  1. Violazione dell’art. 4 della legge n. 352 del 1970. Eccesso di potere per sviamento

Riferendosi il quesito sottoposto a consultazione popolare unicamente al titolo della legge, la sua formulazione contrasterebbe – secondo i ricorrenti – con le previsioni recate dall’articolo 4 della legge n. 352 del 1970, il quale distingue espressamente le ipotesi di referendum aventi ad oggetto leggi di revisione costituzionale – con riferimento alle quali la legge richiede l’indicazione, nel quesito, degli articoli della costituzione sottoposti a modifica – dalle ipotesi di referendum su leggi costituzionali, per le quali è sufficiente l’indicazione nel quesito degli estremi della legge e del relativo titolo.

         Nonostante, quindi, che la legge sottoposta a referendum contenga modifiche espresse della costituzione, sarebbero state illegittimamente applicate le modalità di formulazione del quesito referendario riferite alle leggi costituzionali.

III. Violazione degli articoli 1, 48 e 138 della costituzione per la eterogeneità del quesito sottoposto agli elettori. Illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale della legge n. 352 del 1970 nella parte in cui non prevede che il referendum, se richiesto, debba essere indetto su quesiti corrispondenti a oggetti omogenei

Nel premettere i ricorrenti come la legge sottoposta a referendum abbia oggetto e contenuti eterogenei, tra di loro non connessi, o connessi in via generica e indiretta, e sia volta ad apportare significative modifiche a cinque dei sei titoli della costituzione, la sottoposizione al corpo elettorale di un unico quesito violerebbe la libertà di voto, garantita a ogni cittadino dagli articoli 1 e 48 della costituzione, proprio nella delicata fase di ridefinizione delle regole del patto costituzionale, ponendo l’elettore di fronte all’alternativa di approvare o meno l’intero testo legislativo, senza poter effettuare alcuna valutazione in ordine alla sue diverse componenti.

         Richiamano, inoltre, i ricorrenti, a sostegno della dedotta illegittimità della formulazione del quesito referendario, il principio, affermato dalla consulta con la sentenza n. 16 del 1978 con riferimento al referendum abrogativo – ma asseritamente estensibile anche a quello costituzionale – in base al quale l’oggetto del referendum deve essere omogeneo proprio al fine di rispettare la possibilità di scelta degli elettori, laddove la complessità delle questioni si tradurrebbe in un distorto uso della democrazia rappresentativa.

         Il che troverebbe conferma, oltre che nei lavori dell’assemblea costituente, anche nel carattere oppositivo del referendum costituzionale previsto dall’articolo 138 della costituzione, posto a tutela delle minoranze, le quali debbono potersi esprimere con riguardo ai contenuti concreti delle leggi e non essere costrette ad un’unica manifestazione di volontà riguardante l’intero corpus normativo, altrimenti risolvendosi il referendum in uno strumento di adesione o meno al programma politico della maggioranza che ha approvato la legge di revisione costituzionale.

         Non prevedendo la legge n. 352 del 1970 l’ipotesi di referendum su leggi a contenuto eterogeneo – in quanto formulata sul presupposto della necessità del carattere puntuale delle revisioni costituzionali – ne deduce parte ricorrente, con specifico riferimento agli articoli 4, 12 e 16 di tale legge, l’illegittimità costituzionale per violazione degli articoli 1, 48 e 138 della costituzione, nella parte in cui non prescrivono che in caso di referendum riferito a leggi aventi contenuto ed oggetto eterogenei debbano essere predisposti più quesiti, ciascuno corrispondente ad un oggetto omogeneo.

         Affermata la rilevanza della prospettata questione di illegittimità costituzionale nel giudizio instaurato con il ricorso in esame – in quanto dal suo accoglimento deriverebbe l’illegittimità derivata del gravato decreto di indizione del referendum – chiede quindi parte ricorrente la rimessione della relativa questione alla corte costituzionale sin dalla fase cautelare del giudizio, con sospensione dei gravati provvedimenti fino alla decisione della consulta.

         Si sono costituite in giudizio la presidenza del consiglio dei ministri, il ministero dell’interno e il ministero della giustizia per il tramite dell’avvocatura generale dello stato, la quale, con articolata memoria, ha eccepito, in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva della presidenza della repubblica – precisando espressamente di non costituirsi in giudizio anche per essa – chiedendone l’estromissione in quanto priva di legittimazione passiva, legittimazione che sarebbe da riconoscersi unicamente in capo ai soggetti che hanno controfirmato il gravato decreto – e segnatamente, il presidente del consiglio dei ministri, il ministro dell’interno e il ministro della giustizia – che se ne assumono la responsabilità.

         La difesa delle resistenti amministrazioni ha altresì eccepito, con articolate argomentazioni, il difetto assoluto di giurisdizione in ordine alla controversia in esame (pur riferendo tale «difetto assoluto di giurisdizione» al «giudice amministrativo adito»), sostenendo la natura «legislativa» degli atti impugnati, in quanto inerenti il procedimento di formazione della legge costituzionale, e riportandosi alla sentenza di questo tribunale n. 10445/2016 resa su controversia analoga, nonché alla ordinanza della prima sezione civile del tribunale di Milano del 10 novembre 2016 e all’ordinanza dell’ufficio centrale della cassazione 20-21 ottobre 2016, diffusamente soffermandosi sulla natura vincolata del gravato decreto presidenziale e sul ristretto ambito di sindacabilità di tale atto.

         Nel rappresentare come il quesito referendario sia stato fissato dall’ufficio centrale per il referendum mediante ordinanze datate 6 maggio 2016 e 8 agosto 2016 – che ha ammesso le richieste di referendum presentate presso la propria cancelleria, specificatamente individuando il «quesito da sottoporre a referendum» in base a dette richieste e ritenendo lo stesso conforme “a quanto stabilito dalla legge ordinaria n. 352 del 1970”» – afferma la difesa delle resistenti amministrazioni l’insindacabilità di tali ordinanze in quanto, essendo chiamate a concorrere al procedimento legislativo, nella specie di procedimento referendario, partecipano della relativa natura, riportandosi al riguardo a pertinenti precedenti giurisprudenziali e soffermandosi sull’esame della natura dell’ufficio, quale unità organizzativa della corte di cassazione.

         Sotto altro profilo, eccepisce parte resistente l’inammissibilità della proposta azione impugnatoria per difetto di interesse a ricorrere ex articolo 100 c.p.c., stante l’insussistenza dei requisiti dell’attualità e concretezza della lesione della posizione dei ricorrenti, quali cittadini elettori, per non essersi ancora svolto il referendum.

         L’inammissibilità del ricorso «per difetto di interesse» viene altresì eccepita da parte resistente con riferimento all’azione proposta dai ricorrenti uti cives, in quanto assimilabile ad un’azione popolare non ammessa dall’ordinamento, essendo sempre richiesta la sussistenza di un interesse differenziato alla contestazione dell’atto.

         Con specifico riferimento alle censure proposte, ne sostiene parte ricorrente, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza, affermando, in particolare, la corretta qualificazione del referendum come confermativo di una legge già approvata che interviene prima della promulgazione di quest’ultima, essendo il corpo elettorale chiamato ad approvare definitivamente una legge predisposta dal parlamento e non ancora entrata in vigore, sostenendo altresì la conformità del quesito referendario all’articolo 16 della legge n. 352 del 1970, venendo in rilievo un testo di legge che, oltre a recare modifiche alla costituzione, introduce anche altre disposizioni di rango costituzionale, con la conseguenza che la natura mista rivestita lo ricondurrebbe nell’ambito della categoria delle leggi costituzionali, comprensiva anche delle leggi di revisione costituzionale.

         Quanto alle censure formulate da parte ricorrente in ordine alla illegittimità costituzionale della legge n. 352 del 1970, la difesa delle resistenti amministrazioni ne deduce l’infondatezza, con richiesta di corrispondente pronuncia, nel dettaglio soffermandosi in ordine alla differenza tra referendum abrogativo e costituzionale.

         Ha spiegato intervento ad adiuvandum il Codacons, limitandosi ad affermare la propria legittimazione alla proposta azione in base alle proprie finalità statutarie, senza tuttavia articolare ulteriori deduzioni.

         Ha proposto atto di intervento ad adiuvandum il signor Giuseppe Orlando, in qualità di cittadino elettore, con formula di mero stile, chiedendo genericamente l’accoglimento del ricorso.

         Ha spiegato intervento ad opponendum la signora Rosaria Terrasi, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso sotto svariati profili, tra cui il difetto di legittimazione attiva e di interesse a ricorrere, il difetto assoluto di giurisdizione, la violazione del ne bis in idem – per essere stata proposta analoga azione innanzi al tribunale civile di Milano – per essere stato impugnato un atto politico, e sostenendo nel merito del ricorso l’infondatezza delle censure proposte, con richiesta di corrispondente pronuncia.

         Alla camera di consiglio del 16 novembre 2016, dopo ampia discussione, dato avviso alle parti costituite, previa verifica della completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, della possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, la causa è stata trattenuta in decisione, come da verbale.

DIRITTO

Come sopra dato atto dell’oggetto della controversia sottoposta all’esame del collegio e ravvisati gli estremi per l’adozione di una decisione definitiva nel merito della controversia, occorre in via preliminare verificare la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo e, più in generale, della stessa sindacabilità degli atti impugnati.

         Al riguardo, il collegio ritiene di dover confermare il proprio orientamento precedentemente espresso, con sentenza breve n. 10445/2016, pubblicata in data 20 ottobre 2016, con riferimento ad analoga controversia, avente ad oggetto l’impugnazione dei medesimi atti contestati con il ricorso in esame, definita con la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione.

         A tale conclusione il collegio è giunto, con considerazioni che si ritiene di dover confermare in questa sede, sulla base dell’analisi dell’oggetto del giudizio, della natura e del contenuto degli atti impugnati, della disciplina di riferimento e del petitum azionato, volto alla contestazione – sotto svariati profili – della formulazione del quesito, nonché diretto a sollecitare, sulla base della ritenuta illegittimità di tale formulazione, la rimessione alla corte costituzionale di questioni di illegittimità, specificamente prospettate, della disciplina di riferimento, come dettata dalla legge n. 352 del 1970, i cui vizi si riverberebbero in via derivata sul gravato atto.

         Al riguardo, occorre ricordare, per come meglio illustrato in parte narrativa, che attraverso la proposizione del gravame in esame i ricorrenti chiedono l’annullamento del decreto del presidente della repubblica datato 27 settembre 2016 recante l’indizione del referendum popolare confermativo avente il seguente quesito: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo quinto della parte seconda della costituzione” approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”, nonché di “ogni altro atto preliminare, connesso o consequenziale”.

         Al fine di compiutamente individuare, alla luce della disciplina di riferimento, le singole sfere di attribuzione, di poteri e di competenze, riconosciute ai vari soggetti che sono intervenuti nel procedimento confluito nell’adozione del gravato decreto presidenziale – sulla cui base verificare la sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti dagli stessi adottati in relazione alla natura dei poteri esercitati – giova brevemente ripercorrere lo svolgimento di tale procedimento, in modo da poter individuare la genesi del quesito e le modalità procedurali che hanno condotto alla sua concreta formulazione, individuando l’organo cui tale formulazione è imputabile.

         In tale direzione, va rilevato che le richieste di consultazione referendaria sono state presentate dai relativi promotori sulla base delle previsioni dettate dall’articolo 4 della legge n. 352 del 1970 – recante norme sui referendum previsti dalla costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo – il quale stabilisce, al comma 1, che «La richiesta di referendum di cui all’articolo 138 della costituzione deve contenere l’indicazione della legge di revisione della costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata», disponendo, al comma 2, che le richieste devono pervenire alla cancelleria della corte di cassazione entro un determinato arco temporale.

         Le richieste così formulate – le quali non debbono contenere, ai sensi della richiamata norma, la formulazione del quesito, non essendo tale compito rimesso dalla legge ai promotori – sono state vagliate dall’ufficio centrale per il referendum costituito presso la corte suprema di cassazione, al quale, ai sensi dell’articolo 12 della citata legge n. 352 del 1970, spetta il compito della verifica di «conformità» della richiesta di referendum «alle norme dell’articolo 138 della costituzione e della legge», nonché quello di pronunciarsi sulla «legittimità della richiesta» previa possibilità di contestare ai presentatori eventuali irregolarità e la possibilità per gli stessi di procedere alla loro sanatoria.

         In esito all’esercizio di tali compiti e funzioni, espressamente disciplinati dalla legge, l’ufficio centrale per il referendum, con le ordinanze del 6 maggio 2016 e dell’8 agosto 2016, ha verificato la completezza delle richieste di referendum rispetto agli elementi di cui all’articolo 4 della legge n. 352 del 1970 – ovvero l’indicazione della «legge costituzionale» che si intende sottoporre alla votazione popolare, della data della sua approvazione finale da parte delle camere, della data e del numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata e della designazione dei delegati – la tempestività delle richieste, il rispetto del numero dei richiedenti in relazione alla loro qualità, l’autentica delle sottoscrizioni, ritenendo, come riferito nei considerando delle ordinanze, che «il quesito da sottoporre a referendum, in base alle richieste (ndr: quattro richieste indicate nell’ordinanza del 6 maggio, una nell’ordinanza dell’8 agosto) e conformemente a quanto stabilito dall’articolo 16 della legge n. 352 del 1970, è il seguente: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo quinto della parte seconda della costituzione” approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?» e concludendo che le richieste referendarie «sono conformi alle norme dell’articolo 138 della costituzione e della legge n. 352 del 1970 e, pertanto, vanno ammesse», dichiarando conclusivamente, nella parte dispositiva delle pronunce, la conformità delle richieste referendarie e la legittimità del quesito da sottoporre agli elettori.

         Successivamente all’adozione delle illustrate ordinanze da parte dell’ufficio centrale per il referendum, è intervenuta la delibera del consiglio dei ministri, datata 26 settembre 2016, con la quale è stata proposta al presidente della repubblica la data del 4 dicembre 2016 per lo svolgimento del referendum popolare.

         Infine, ai sensi dell’articolo 15 della legge n. 352 del 1970 – il quale dispone che il referendum è indetto con decreto del presidente della repubblica su deliberazione del consiglio dei ministri – con il decreto del presidente della repubblica oggetto di gravame, richiamate in premessa le norme di riferimento e la legge costituzionale da sottoporre a referendum, nonché le ordinanze adottate dall’ufficio centrale per il referendum e la deliberazione del consiglio dei ministri del 26 settembre 2016, è stato quindi indetto il «referendum popolare confermativo» avente ad oggetto il medesimo quesito contenuto nelle predette ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum, convocando i comizi elettorali per il giorno 4 dicembre 2016.

         Dalla illustrata ricostruzione dello svolgimento del complesso iter di indizione del referendum – che vede intervenire, a titoli diversi, vari soggetti – e delle norme di riferimento che lo governano, deve dunque osservarsi come il quesito contenuto nel gravato decreto presidenziale sia il medesimo di quello indicato nelle ordinanze adottate dall’ufficio centrale per il referendum, dovendo pertanto la formulazione di tale quesito essere imputata a quest’ultimo organo.

         Il quesito così predisposto è stato successivamente trasfuso nel gravato decreto presidenziale senza che altri e diversi soggetti – e segnatamente la presidenza del consiglio dei ministri – siano intervenuti sulla relativa formulazione.

         La circostanza che il quesito sia stato individuato dall’ufficio centrale per il referendum attraverso l’adozione di atti tipici, aventi la forma di ordinanze, conduce a ritenere che le stesse non possano, all’evidenza, essere sindacate innanzi al giudice amministrativo.

         Essendo la controversia in esame volta a denunciare l’illegittimità della formulazione del quesito referendario indicato nel gravato decreto presidenziale – per non essere indicati gli articoli della costituzione soggetti a revisione e per essere il quesito riferito ad oggetti eterogenei – ed essendo tale quesito il medesimo di quello individuato dall’ufficio centrale per il referendum – e meramente recepito nel gravato decreto presidenziale – attraverso ordinanze non impugnabili con gli ordinari mezzi giurisdizionali (per le ragioni che meglio si illustreranno in seguito), deve dunque concludersi per la sottrazione di tali ultimi atti alla possibilità di sottoposizione a sindacato giurisdizionale in mancanza di una espressa previsione in tal senso.

         Né la circostanza che il quesito, come formulato dall’ufficio centrale per il referendum, sia stato trasfuso nel gravato decreto presidenziale di indizione del referendum può valere ad incardinare la giurisdizione amministrativa sull’atto conclusivo del procedimento referendario sulla base di un ipotetico assunto della sua natura amministrativa, ostandovi il rilievo che – sulla scorta del concreto svolgimento del procedimento – il quesito è stato in concreto formulato dal predetto ufficio nell’esercizio di specifiche prerogative che la legge n. 352 del 1970 gli attribuirebbe, con conseguente imputabilità della sua formulazione, nell’applicazione che gli organi intervenuti nel procedimento referendario hanno dato a tale legge, a tale organo, che si è espresso mediante adozione di ordinanze soggette ad un particolare regime di tutela cui sono estranei gli ordinari mezzi giurisdizionali.

         La circostanza, quindi, che il quesito contenuto nel gravato decreto presidenziale trovi la propria genesi in ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum comporta la sottrazione di tale atto al sindacato giurisdizionale.

         Né potrebbe ipotizzarsi che il regime di giustiziabilità del quesito referendario possa prescindere dalla natura dell’organo che lo ha in concreto formulato, traslando il sistema di tutela sull’atto finale che tale requisito recepisce in modo vincolato dandogli la veste formale di decreto presidenziale.

         Ed invero, indirizzando la disamina verso il decreto presidenziale, atto conclusivo dell’iter di indizione del referendum costituzionale e che costituisce oggetto principale dell’impugnativa in esame, deve rilevarsi come lo stesso presenti plurimi contenuti, aventi natura e corrispondenti regimi di sindacabilità differenti, di cui l’uno riferito alla individuazione della data di svolgimento del referendum, che avviene sulla base di una deliberazione adottata dal consiglio dei ministri e che è soggetto al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, e l’altro riferito alla formulazione del quesito in recepimento delle ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum, ivi espressamente richiamate, rispetto al quale ritiene il collegio non vi siano spazi di sindacato giurisdizionale.

         Al riguardo, occorre innanzitutto ricordare che – come più volte affermato dalla corte costituzionale (cfr., ex multis, sentenza n. 1 del 2013) – il presidente della repubblica costituisce un organo costituzionale monocratico «titolare di un complesso di attribuzioni, non inquadrabili nella tradizionale tripartizione dei poteri dello stato ed esercitabili in posizione di piena indipendenza e autonomia, costituzionalmente garantita», qualificabile come «potere» dello stato e legittimato – in quanto tale – a sollevare «conflitti di attribuzione» (cfr., tra le altre, corte costituzionale, ordinanza n. 138 del 2015; sentenza n. 200 del 2006), dotato altresì di competenze molteplici finalizzate alla attuazione dei principi costituzionali, idonee a tradursi nell’adozione di atti e provvedimenti differentemente classificabili a seconda della funzione effettivamente esercitata, che può incidere sul processo legislativo, sul potere esecutivo o essere riconducibile all’attività amministrativa, abbracciando anche funzioni peculiari ed esclusive, non classificabili nella tradizionale tripartizione dei poteri, come, ad esempio, in caso di decreti di nomina di senatori a vita e di atti di scioglimento delle camere, esercitando altresì poteri che sono espressione di funzioni neutrali.

         Proprio in ragione della poliedricità delle funzioni e delle competenze del presidente della repubblica è, dunque, da escludere l’insindacabilità in termini assoluti degli atti e dei provvedimenti adottati da tale organo, essendo conseguentemente necessario procedere ad una valutazione – sempre e in ogni caso – della natura del potere in concreto esercitato alla stregua delle specifiche attribuzioni riconosciute dall’ordinamento, tenendo comunque conto delle peculiarità che connotano tali atti e provvedimenti, da coordinarsi con gli specifici profili che risultano oggetto di contestazione.

         In tal senso ha già avuto modo di esprimersi la giurisprudenza, anche di questa sezione, affermando, proprio in ordine a deliberazioni del consiglio dei ministri adottate per la celebrazione di «referendum popolari» e al «conseguente Dpr», l’impossibilità di attribuire «la qualificazione di natura legislativa a tutti gli atti del relativo procedimento» e, quindi, rilevando la sindacabilità di tali provvedimenti «segnatamente con riferimento ai profili lesivi della libertà e della segretezza delle scelte degli elettori» e, più specificamente, nell’ipotesi in cui gli atti di cui si discute siano configurabili, pur se connotati da un certo margine di discrezionalità», come «atti applicativi della legislazione primaria«» e, quindi, risultino soggetti a precisi vincoli giuridici (cfr. ordinanza del Tar Lazio, Roma, n. 1302 del 2011, confermata dal consiglio di stato, sezione quinta, con l’ordinanza n. 1736 del 2011 che qualifica gli atti impugnati come di alta amministrazione non riconducibili all’esercizio del potere politico).

         L’estensione dell’ambito, oggettivo e soggettivo, di sindacabilità degli atti – cui il collegio ritiene di aderire – è stata progressivamente affermata in ossequio al generale principio costituzionale di tutela delle posizioni giuridiche soggettive di cui agli articoli 24 e 113 della costituzione, segnalandosi al riguardo, quali punti di approdo di tale processo, la sentenza della corte costituzionale n. 81 del 2012 (laddove si afferma che «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e, quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate», giungendo a ritenere che la circostanza che l’organo che ha adottato l’atto sia un organo politico ed eserciti un potere politico non comporta che i relativi atti siano tutti e sotto ogni profilo insindacabili, non alterando la presenza di alcuni vincoli la natura politica del potere esercitato, ma piuttosto delimitandone lo spazio di azione, con conseguente sindacabilità dell’atto in sede giurisdizionale se e in quanto abbia violato una norma giuridica), nonché la sentenza del consiglio di stato, sezione quinta, n. 6002 del 2012 – laddove si afferma che la presenza di un vincolo giuridico all’azione determina l’attrazione «delle determinazioni assunte da organi politici nell’alveo dell’azione amministrativa sottoposta, alla stregua dei principi costituzionali, al controllo di legalità da parte dell’autorità giurisdizionale» (al riguardo, anche consiglio di stato, sentenza n. 2413 del 2000, e cassazione civile, sezioni unite, 13 gennaio 2000, n. 1170);

         Posto, quindi, che i decreti del presidente della repubblica, quali quelli di indizione di referendum, non sono insindacabili in termini assoluti in quanto tali – dovendo distinguersi tra le ipotesi in cui il relativo contenuto costituisca esercizio di poteri riconducibili a quelli amministrativi e «politici» non liberi nei fini nel senso dianzi illustrato, con riferimento alle quali deve affermarsi la loro piena sindacabilità in sede giurisdizionale, dalle ipotesi in cui siano piuttosto riconducibili all’esplicazione di poteri neutrali di garanzia e controllo, di rilievo costituzionale – assume decisivo rilievo, al fine di individuare il regime di sindacabilità del gravato atto, il petitum azionato mediante la proposizione del gravame in trattazione, volto, attraverso le censure formulate, a denunciare l’illegittimità del decreto del presidente della repubblica nella parte in cui richiama e, quindi, sostanzialmente recepisce, il contenuto delle ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum costituito presso la corte suprema di cassazione, il quale, dopo essersi positivamente espresso sulla legittimità e sull’ammissibilità delle «richieste di referendum popolare, ai sensi dell’articolo 138, secondo comma, della costituzione», ha riconosciuto la legittimità del quesito referendario individuandolo nella seguente formula: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo quinto della parte seconda della costituzione”, approvata dal parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016”», espressamente giudicandolo, nella parte motiva delle citate ordinanze, conforme a quanto stabilito «dall’articolo 16 della legge n. 352 del 1970?».

         Le superiori premesse conducono a ritenere l’insindacabilità del Dpr impugnato in relazione al profilo inerente il quesito referendario, tenuto conto che la formulazione dello stesso proviene dalle ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum e che tale quesito è stato meramente recepito nel conclusivo decreto presidenziale.

         A tale conclusione si addiviene in ragione della insindacabilità, da parte del giudice amministrativo delle ordinanze adottate, in materia, dall’ufficio centrale del referendum istituito presso la suprema corte di cassazione, dovendo allo stesso riconoscersi la natura di organo rigorosamente neutrale in quanto essenzialmente titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza, con la connessa impossibilità di qualificare gli atti dallo stesso adottati in materia di referendum come atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi (in senso analogo, pur se spingendosi fino ad affermare anche la partecipazione di tali atti alla funzione legislativa, non condivisa dalla sezione, ex multis, consiglio di stato, sezione quarta, 26 novembre 2015, n. 5369, di conferma della sentenza di questa sezione n. 4059 del 2015; sezione quarta, 4 maggio 2010, n. 2552; 16 giugno 2009, n. 3834; 2 aprile 1997, n. 333).

         La ritenuta non sindacabilità delle determinazioni assunte dall’ufficio centrale per il referendum in ordine alla individuazione del quesito discende, pertanto, dal loro essere emanate da un organo rigorosamente neutrale, e non nell’esplicazione di un potere amministrativo (pur concretandosi anche in compiti di verifica di conformità delle richieste, per come previsto dall’articolo 12 della legge n. 352 del 1970) per concreti scopi particolari di pubblico interesse, ma nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello stato e nell’esercizio di funzioni pubbliche neutrali affidate ad un organo che, per composizione e struttura, si colloca in posizione di terzietà e di indipendenza, in quanto indifferente rispetto agli interessi in gioco e non chiamato a dirimere conflitti, ma a svolgere un’attività diretta alla soddisfazione di interessi generali garantendo l’osservanza della legge, collocandosi ad un livello diverso rispetto alle funzioni amministrative e a quelle giurisdizionali.

         Le superiori considerazioni in ordine alla natura dei poteri – di fatto e con specifico riferimento alla fattispecie – esercitati dall’ufficio centrale per il referendum nell’ambito del referendum costituzionale di cui si controverte, unitamente al fondamento giustificativo dei poteri attribuiti al presidente della repubblica, funzionali al controllo ed alla garanzia del corretto funzionamento del sistema ordinamentale sulla base di canoni obiettivi e precostituiti, nell’esercizio dei quali, attraverso l’adozione del gravato decreto di indizione del referendum, è stata conferita veste formale al quesito individuato da un organo, quale l’ufficio centrale del referendum, in esito allo svolgimento di analoga funzione neutrale e di garanzia, conclusivamente saldandosi nel decreto impugnato, rendono tale atto ed il quesito formulato insuscettibili di sindacato giurisdizionale, in quanto non riconducibili all’esercizio di attività amministrativa, ma all’esplicazione di funzioni di garanzia e di controllo aventi carattere neutrale poste a presidio dell’ordinamento.

         Né a diverse conclusioni potrebbe addivenirsi mediante l’adesione all’orientamento della corte costituzionale che in taluni casi ha riconosciuto la natura giurisdizionale all’ufficio centrale per il referendum (sentenza n. 164 del 2008, ordinanza n. 343 del 2003 e sentenza n. 334 del 2004), orientamento peraltro espresso anche dallo stesso ufficio centrale – con ordinanza 11 novembre 2008 e, da ultimo, con ordinanza depositata in data 21 ottobre 2016 – dal momento che la natura dei relativi provvedimenti ed il conseguente regime di tutela non ne consentirebbe comunque la sindacabilità secondo gli ordinari mezzi di tutela giurisdizionale.

         Nelle considerazioni sopra rassegnate risiedono le ragioni per cui non ritiene, il collegio, di aderire alla qualificazione dell’ufficio centrale per il referendum quale organo che, in quanto interviene nell’ambito di un procedimento di esercizio della funzione legislativa, parteciperebbe a tale funzione condividendone la natura, per come affermato dalla difesa delle resistenti amministrazioni sulla base del richiamo a conformi precedenti giurisprudenziali (ex multis, consiglio di stato, sezione quarta, 26 novembre 2015, n. 5369, di conferma della sentenza di questa sezione n. 4059 del 2015; sezione quarta, 4 maggio 2010, n. 2552; 16 giugno 2009, n. 3834; 2 aprile 1997, n. 333).

         La circostanza che la funzione espletata dall’ufficio centrale per il referendum si inserisca in un procedimento complesso che ha natura sostanzialmente legislativa, in quanto volto, nel suo esito, ad incidere su una fonte legislativa attraverso l’intervento del corpo elettorale, non appare invero sufficiente per acquisire, in via automatica, la sua stessa natura, ostandovi la tradizionale tripartizione dei poteri e non potendo a tale organo riconoscersi alcuna investitura di rappresentanza popolare o attribuzione di funzione sovrana, attuandosi, a diversamente ritenere, una inammissibile interferenza nella sfera propria del potere legislativo regolata dalla costituzione e non estensibile con legge ordinaria, dovendo quindi escludersi che l’ufficio centrale per il referendum svolga attività di carattere legislativo e che i relativi atti partecipino di tale funzione o siano ascrivibili alla categoria degli atti politici.

         L’esatta individuazione della natura dei poteri esercitati dall’ufficio centrale per il referendum riveste, per come sopra evidenziato, valenza centrale ai fini della decisione in ordine alla questione inerente la sindacabilità del quesito referendario, oggetto di censura nella controversia in esame, la cui soluzione è difatti imprescindibilmente connessa con l’individuazione del soggetto cui il quesito è imputabile.

         Al riguardo, giova ricordare che la formulazione del quesito, come individuato dall’ufficio centrale per il referendum e trasfuso nel decreto presidenziale impugnato, non può essere imputata ai promotori i quali, come dianzi illustrato, si limitano ad indicare nella richiesta di referendum, ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 352 del 1970, i tratti identificativi della legge da sottoporre a consultazione referendaria.

         Dagli atti che hanno scandito il procedimento confluito nell’adozione del gravato Dpr emerge chiaramente come la formulazione del quesito sia contenuta per la prima volta nelle ordinanze adottate dall’ufficio centrale per il referendum, mentre né la richiesta referendaria né la delibera del consiglio dei ministri recano alcun riferimento ad esso.

         Occorre tuttavia coniugare lo svolgimento del procedimento in esame, come scandito dagli atti adottati dai vari organi che vi sono intervenuti, con la disciplina di riferimento.

         Al riguardo, occorre evidenziare come il potere di formulazione del quesito non sia stato espressamente attribuito ad alcun soggetto dalla legge n. 352 del 1970, la quale, con riguardo al referendum previsto dall’articolo 138 della costituzione sulle leggi di revisione costituzionale e sulle leggi costituzionali – a differenza di quanto previsto per il referendum abrogativo agli articoli 27 e 32 – non individua in alcun modo il soggetto che deve provvedere alla formulazione del quesito e le relative modalità, né dedica alcun cenno a tale fase del procedimento referendario costituzionale.

         Mentre infatti, per come in precedenza illustrato, l’articolo 4, nel disciplinare la fase della richiesta di referendum costituzionale, non prevede l’onere di indicazione, da parte dei promotori, del quesito referendario – a differenza che nel referendum abrogativo, in cui i promotori sono chiamati a individuare il contenuto della scheda di votazione – l’articolo 12 affida all’ufficio centrale per il referendum unicamente il compito di verificare «che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 138 della costituzione e della legge», mentre all’articolo 15 dispone che il referendum è indetto con decreto del presidente della repubblica, su deliberazione del consiglio dei ministri, senza alcuna ulteriore specificazione in ordine ai poteri attribuiti al consiglio dei ministri.

         Dal silenzio della legge circa la formulazione del quesito referendario e dalla illustrata scarna disciplina non può, innanzitutto, affermarsi, in via interpretativa e integrativa, che il potere di formulare il quesito spetti al consiglio dei ministri, comportando tale soluzione – che pure permetterebbe il sindacato giurisdizionale di legittimità della relativa decisione – una inammissibile forte ingerenza del potere politico sul procedimento referendario avuto riguardo, in particolare, alla formulazione del quesito, che riveste delicatissima valenza tenuto conto degli interessi in gioco, in contrasto, peraltro, con la natura del referendum costituzionale (avente carattere eventuale ed effetto sospensivo dell’entrata in vigore della legge) quale strumento di tipo oppositivo posto a garanzia delle minoranze.

         Considerato, inoltre, che all’ufficio centrale per il referendum è affidato espressamente ed unicamente il compito di verificare che la «richiesta» di referendum sia conforme alla costituzione e alla legge senza alcuna espressa attribuzione del compito di formulare il quesito, si aprono due possibili strade interpretative per individuare come il quesito debba essere formulato.

         Infatti, in assenza di una norma che, nell’ambito del procedimento di indizione del referendum, individui specificamente il soggetto chiamato a individuare il quesito, potrebbe ritenersi che lo stesso debba discendere in via automatica ed ex lege dall’applicazione dell’articolo 16 della legge n. 352 del 1970.

         Dispone tale articolo che il «quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: “Approvate il testo della legge di revisione dell’articolo… (o degli articoli …) della costituzione, concernente … (o concernenti …), approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ?”»; ovvero: «Approvate il testo della legge costituzionale … concernente … approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ?».

         Sulla base di una interpretazione letterale della norma, l’individuazione del quesito potrebbe non essere ancorata al dato sostanziale del disegno normativo da sottoporre a referendum (ovvero alla sua portata effettiva in relazione al contenuto, se di revisione della costituzione o se volto ad introdurre ulteriori norme di rango costituzionale che non modificano la costituzione), quanto al mero dato formale della titolazione del testo della legge, operando l’opzione per l’una o per l’altra formula, contenuta nel citato articolo 16, in via automatica e sulla base del mero dato letterale della denominazione del testo normativo, se di revisione costituzionale o se invece di legge costituzionale.

         Secondo, invece, una interpretazione dell’articolo 16 volta a dare rilievo al dato sostanziale e contenutistico della legge da sottoporre a referendum, a determinare la scelta del quesito sarebbe la portata della legge, se di revisione costituzionale – nel qual caso il quesito dovrebbe indicare gli articoli della costituzione sottoposti a modifica – o se concernente altre norme di rango costituzionale.

         La prima delle prospettate opzioni – volta a dare rilievo al dato formale – potrebbe porre dei problemi di legittimità costituzionale della disciplina normativa che la consente, tenuto conto della differenza sostanziale tra leggi di revisione costituzionale e leggi costituzionali che non può non riflettersi, in ossequio all’articolo 138 della costituzione e per come sembra suggerire una lettura costituzionalmente orientata dall’articolo 16 della legge n. 352 del 1970, in distinte formulazioni dei relativi quesiti al fine di consentire agli elettori la piena consapevolezza della portata del referendum.

         Pur potendo le leggi costituzionali e le leggi di revisione costituzionale essere ricondotte nella più ampia categoria delle leggi costituzionali – la cui omogeneità è riconducibile unicamente alla loro posizione nella gerarchia delle fonti del diritto – la portata delle leggi di revisione della costituzione, idonee ad incidere sulla architettura della carta fondamentale, sembra invero riflettersi, nella legge n. 352 del 1970, coerentemente con l’articolo 138 della costituzione, sulla previsione di due distinte formulazioni del quesito referendario, di cui uno riferito alle ipotesi di legge di revisione costituzionale, con riferimento alle quali viene richiesta l’indicazione degli articoli della costituzione che si intendono modificare, con una scelta che sembra rispondere alla ratio di tutela dell’elettore e del diritto dello stesso alla consapevolezza – funzionale alla libertà del voto – circa la valenza e la portata della legge sottoposta a referendum.

         Ulteriore ipotesi ricostruttiva in ordine alla fase di formulazione del quesito ed al soggetto a tale compito deputato – tenuto conto dell’assenza di una espressa previsione normativa in tal senso – è quella che è stata seguita dall’ufficio centrale del referendum, il quale, con le ordinanze del 6 maggio 2016 e dell’8 agosto 2016, verificata la completezza delle richieste di referendum, la tempestività delle stesse, il rispetto del numero dei richiedenti in relazione alla loro qualità e l’autentica delle sottoscrizioni, ha individuato il quesito da sottoporre a referendum «conformemente a quanto stabilito dall’articolo 16 della legge n. 352 del 1970».

         Con successiva ordinanza, depositata in data 21 ottobre 2016, l’ufficio, chiamato a pronunciarsi sull’istanza di revocazione di dette ordinanze – dichiarata inammissibile per difetto di legittimazione attiva del soggetto istante – ha reso una sorta di interpretazione autentica delle ragioni sottese alla formulazione del quesito dallo stesso adottata nelle precedenti ordinanze.

         Ha espressamente affermato l’ufficio che la legge n. 352 del 1970 non assegna il compito di individuare il quesito né ai promotori, né al consiglio dei ministri, né al presidente della repubblica, con la conseguenza che tale compito deve essere demandato – «anche alla stregua della giurisprudenza di questo ufficio» – all’ufficio centrale per il referendum nella qualità di «giudice della legittimità della complessiva richiesta referendaria».

.        Con riferimento alla formula del quesito referendario, afferma l’ufficio che la stessa «è fissata (a differenza del quesito referendario per l’abrogazione di disposizioni di legge) direttamente dall’articolo 16 della legge n. 352 del 1970» il quale, sempre secondo l’ufficio, prevede due distinti quesiti a seconda che l’oggetto referendario sia costituito da una legge costituzionale – nel qual caso il quesito deve indicare gli articoli da modificare – o sia invece costituito da altra legge costituzionale, prevedendo, in tale ultima ipotesi, che sia indicato il titolo della legge, che ha la funzione di informare sinteticamente sull’oggetto del provvedimento legislativo.

         Pur aderendo tale organo all’impostazione secondo cui il quesito – la cui formulazione concreta sarebbe di spettanza dell’ufficio centrale – discenderebbe in via automatica ed ex lege dall’applicazione dell’articolo 16 e pur dando rilievo alla sostanziale distinzione (sebbene qualificata come meramente formale) tra leggi di revisione costituzionale – che modificano articoli della costituzione – e altre leggi costituzionali che lasciano intatto il contenuto della carta fondamentale, dalla quale discenderebbe l’individuazione di distinte formule del quesito referendario (con indicazione degli articoli della costituzione da modificare nel caso di leggi di revisione costituzionale), l’ufficio centrale ha rilevato come la legge da sottoporre a referendum abbia «natura mista», in quanto, oltre a recare modifiche di cinquanta articoli della costituzione, contiene anche la modifica della rubrica di un titolo della costituzione (che quindi non si risolve in una modifica di un articolo della costituzione), la modifica di alcuni articoli di «tre diverse leggi costituzionali» e l’introduzione di norme che non costituiscono modifica testuale di articoli della costituzione.

         Nel rilevare come l’articolo 16 della legge n. 352 del 1970 non disciplini tale ipotesi di leggi aventi «natura mista», l’ufficio ha quindi proceduto, nell’esercizio dei compiti asseritamente allo stesso spettanti, ad individuare un quesito «compatibile» per tutte le parti della legge da sottoporre a referendum «valutando la natura effettiva della legge oggetto di referendum» e risolvendo «il problema del quesito da utilizzare per le leggi costituzionali “miste”».

         In tal modo la portata della revisione costituzionale della legge da sottoporre a referendum viene resa subvalente – ai fini dell’individuazione del quesito – rispetto alle altre disposizioni non aventi tale carattere di revisione, con individuazione del quesito, tra quelli previsti dall’articolo 16, in quello dedicato alle leggi costituzionali, e non in quello riferito alle leggi di revisione.

         Dal sistema così delineato e dalla sua applicazione discende, quindi, che il potere di formulare il quesito spetta all’ufficio centrale per il referendum, il quale procede in concreto alla sua individuazione sulla base del contenuto della legge da sottoporre a referendum, facendone discendere la formula dall’applicazione diretta dell’articolo 16 della legge n. 352 del 1970.

         A fronte di leggi aventi contenuto misto – di revisione costituzionale e contenenti altresì altre norme di valore costituzionale – e del silenzio del citato articolo per tali ipotesi, l’ufficio ha individuato il quesito «che la legge riconnette a tale domanda» scegliendo, tra le due formule previste dall’articolo 16, quella riferita alle leggi costituzionali, e non quello indicato per le leggi di revisione costituzionale, pur non contenendo la legge di riferimento alcuna indicazione in tal senso.

         È quindi evidente come, per tali ipotesi di legge «mista», la legge n. 352 del 1970 lasci ampi spazi interpretativi in ordine alla formulazione del quesito il quale, nella fattispecie in esame, è stato autonomamente individuato dall’ufficio «nella sua qualità di giudice della legittimità della complessiva richiesta referendaria», riferendolo – con scelta contestata dagli odierni ricorrenti – all’intero testo normativo.

         Con l’ordinanza in esame, depositata in data 21 ottobre 2016, l’ufficio centrale per il referendum – dopo aver rilevato il difetto di legittimazione attiva degli istanti – afferma inoltre espressamente – ribadendo il proprio orientamento già precedentemente espresso (ordinanza 11 novembre 2008) – la propria natura giurisdizionale, la cui composizione e funzionamento sono regolati dalla legge n. 352 del 1970, sostenendo altresì la non assimilabilità dei relativi provvedimenti a quelli di volontaria giurisdizione – con conseguente non revocabilità degli stessi – stanti i caratteri di definitività e decisorietà degli stessi, e precisando come il rimedio della revocazione sia ammissibile solo nelle ipotesi in cui le ordinanze dell’ufficio costituiscano «l’atto conclusivo del procedimento e la rimozione o la modificazione di esse non esplichi alcuna incidenza sulle attività successive, poste in essere da organi differenti, di rango costituzionale».

         Ne discende che, sulla base dell’orientamento espresso nella pronuncia in esame, le ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum con le quali viene ammessa la richiesta referendaria e formulato il quesito non sono impugnabili per revocazione, in quanto non definitive, e non sono revocabili, «ostandovi il divieto di invasione delle sfere di attribuzione degli altri organi» che intervengono nelle fasi successive, quali il consiglio dei ministri e la presidenza della repubblica.

         La natura dell’organo cui spetta la formulazione del quesito (e che, nella fattispecie in esame, lo ha in concreto individuato e che è stato recepito nel decreto presidenziale impugnato), come declinata alla luce del recente orientamento dell’ufficio centrale per il referendum, nel confermare la non sindacabilità delle relative decisioni – per come ritenuto dalla sezione nella precedente sentenza n. 10445/2016, seppur sulla base della diversa considerazione della natura di organo neutrale, titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza – unitamente alla ritenuta non ammissibilità dello strumento della revocazione allorquando viene ammesso il referendum e definito il relativo quesito, impongono, sotto il profilo sistematico, alcune riflessioni.

         Escluso che l’ufficio centrale per il referendum possa ritenersi una giurisdizione speciale, ostandovi il divieto di cui all’articolo 102 della costituzione, potrebbe al più essere considerato una sezione specializzata, ma tuttavia tale configurazione presenta difficoltà di coordinamento con le regole di composizione dell’ufficio predeterminata ex lege (segnatamente, ai sensi dell’articolo 12 della legge n. 352 del 1970 che lo istituisce, dai tre presidenti di sezione della corte di cassazione più anziani nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione), con l’individuazione della – insolita – figura dei vice presidenti (prevedendosi che il più anziano dei tre presidenti presiede l’ufficio e gli altri due esercitano le funzioni di vice presidente) e le modalità di funzionamento, essendo sufficiente per la validità delle deliberazioni la presenza del presidente o di un vice presidente e di sedici consiglieri, laddove per gli organi giurisdizionali vige la regola generale dell’immutabilità del collegio, che deve essere a composizione fissa ed invariabile, mentre è propria degli organi amministrativi la previsione di un quorum strutturale e la possibilità di deliberare con un numero variabile di membri.

         Le competenze assegnate all’ufficio centrale per il referendum – a composizione soggettivamente giurisdizionale – non sono, inoltre, riconducibili alle funzioni tradizionalmente svolte dalla cassazione, e i relativi atti, connotati, per come dianzi illustrato e per come significativamente avvenuto nella fattispecie in esame, da ampi margini interpretativi ed applicativi, sono insindacabili, precluso essendo sia il ricorso in cassazione per violazione di legge, sia quello per revocazione laddove il procedimento referendario non si arresti con una pronuncia di inammissibilità della richiesta, ma prosegua con l’intervento del consiglio dei ministri e della presidenza della repubblica sulla base del quesito individuato dall’ufficio centrale.

         Pur non rivestendo il principio del doppio grado del giudizio cogente valenza costituzionale, occorre tuttavia segnalare la progressiva estensione dell’ambito di applicazione del ricorso in cassazione per violazione di legge a tutti i provvedimenti con contenuti decisori (si pensi ai provvedimenti con cui vengono irrogate sanzioni disciplinari ai magistrati ordinari), nonché l’immanenza del diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto dall’articolo 24 della costituzione e la declinazione di tale principio offerta sia dalla corte costituzionale che dalla corte europea dei diritti dell’uomo, unitamente alla necessità di attuazione dell’articolo 113 della costituzione.

         Le statuizioni contenute nell’ordinanza del 21 ottobre 2016 dell’ufficio centrale per il referendum precludono, quindi, la possibilità di tutela che la sezione aveva individuato nella sentenza n. 10445/2016, laddove si è affermato che «eventuali questioni di illegittimità costituzionale della legge n. 352 del 1970 – in ipotesi riconducibili alla predeterminazione del quesito in base alla autoqualificazione della legge, in termini di revisione costituzionale o quale mera legge costituzionale indipendentemente dal contenuto effettivo e sostanziale della stessa (la cui scelta è rimessa alle determinazioni del proponente e della maggioranza parlamentare), e del titolo della stessa, tenuto conto dell’articolo 138 della costituzione, di cui la legge n. 352 del 1970 costituisce attuazione, e tenuto altresì conto dei principi che devono presiedere l’esercizio del diritto di voto tra cui quelli di libero convincimento e di consapevole manifestazione della volontà popolare, nonché della finalità del referendum costituzionale, volto, anche, alla tutela della minoranza parlamentare – sono da ritenere rimesse al vaglio dell’ufficio centrale per il referendum in sede di applicazione di tale normativa, essendo stata ammessa la sua legittimazione a sollevare questioni incidentali di costituzionalità innanzi alla corte costituzionale (ex plurimis: corte costituzionale, sentenza 17 ottobre 2011, n. 278, proprio con riferimento a questioni inerenti alla legge n. 352 del 1970; sul piano più generale, in tema di legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità si veda anche corte costituzionale 23 luglio 2015, n. 181, e n. 226 del 1976), eventualmente in sede di revocazione delle ordinanze adottate in materia di referendum costituzionale, ritenendo lo stesso ufficio centrale per il referendum l’esperibilità di tale rimedio sull’assunto della propria natura giurisdizionale (ordinanza dell’ufficio centrale per il referendum adottata nella camera di consiglio dell’11 novembre 2008; la possibilità di revocazione è stata riconosciuta anche con sentenza della corte costituzionale 30 gennaio 1986, n. 17)».

         La natura giurisdizionale dell’ufficio centrale, dallo stesso affermata, nel non consentirne la sindacabilità innanzi al giudice – tanto meno innanzi al giudice amministrativo – delle relative decisioni, preclude, inoltre, di traslare la possibilità di impugnazione al decreto presidenziale conclusivo del procedimento che, in modo vincolato, recepisce il quesito formulato dall’ufficio, dovendo tale quesito imputarsi all’ufficio stesso.

         Le perplessità ed i profili di difficile compatibilità, sotto il profilo costituzionale, del complessivo sistema delineato, anche attraverso le pronunce dell’ufficio centrale per il referendum, che governa il procedimento referendario costituzionale, avuto riguardo sia alla configurazione di tale ufficio quale organo giurisdizionale, sia all’attribuzione allo stesso del compito di formulare il quesito sulla base di un’attività interpretativa dell’articolo 16 della legge n. 352 del 1970, sia al contenuto di tale norma laddove possa essere interpretata nel senso che anche in caso di leggi aventi contenuto misto – di revisione di norme della costituzione e di modifica o introduzione di leggi costituzionali – il quesito referendario possa prescindere dall’indicazione degli articoli della costituzione sottoposti a modifica, sia con riguardo alla non prevista possibilità di procedere a referendum costituzionale per singole parti omogenee della legge, non possono essere, all’evidenza, sollevati dal tribunale adito, stante il riscontrato difetto di giurisdizione che preclude, per difetto di rilevanza, la rimessione alla corte costituzionale delle relative questioni.

         Rimessione che, nel delineato quadro, potrebbe essere effettuata unicamente dall’ufficio centrale per il referendum in sede di verifica dell’ammissibilità della richiesta referendaria, mentre, ai soggetti che si assumono lesi dalle conseguenze di tale sistema, è riconosciuta la possibilità di adire la corte europea dei diritti dell’uomo.

         A fini di completezza sotto il profilo ricostruttivo della delicata tematica in esame – involgente il diritto di voto in ambito referendario ed il procedimento di formazione del relativo quesito in relazione alle sfere di attribuzione dei soggetti che vi intervengono, nonché l’ambito di giustiziabilità dei relativi provvedimenti, comunque soggetti al vincolo del rispetto della legge e della sua corretta applicazione – va rilevato come anche l’ordinanza del tribunale civile di Milano, resa sul procedimento cautelare n. 54353/2016, del 10 novembre 2016, ha affermato la natura giurisdizionale dell’ufficio centrale per il referendum, pur al contempo riportandosi alla natura di organo neutrale dello stesso affermata dalla citata sentenza n. 10445/2016 della sezione, senza tuttavia espressamente declinare o affermare la giurisdizione del giudice amministrativo o del giudice ordinario, procedendo all’esame delle questioni prospettate dai ricorrenti – i medesimi che agiscono in questa sede – dopo aver dichiarato l’inammissibilità del ricorso in via d’urgenza e solo per l’ipotesi, subordinata, in cui «non si intenda condividere le argomentazioni sin qui espresse», concludendo per l’infondatezza delle domande proposte stante la ritenuta «rispondenza della formulazione del quesito referendario in un’unica domanda formulata ai sensi della legge n. 352/1070, ancorché avente ad oggetto più articoli della costituzione e più oggetti, alle previsioni di cui all’articolo 138 della costituzione» e ritenendo altresì che «la pedissequa applicazione della procedura disciplinata dall’articolo 138 cost.» non consente di sollevare dubbi di legittimità costituzionale delle norme evocate.

         Anche in tale pronuncia, analogamente a quanto affermato nell’ordinanza dell’ufficio centrale per il referendum del 21 ottobre 2016, si sostiene inoltre che l’individuazione del quesito, tra le opzioni previste dalla legge n. 352 del 1970, è di «esclusiva competenza dell’ufficio centrale per il referendum».

         Tale ricostruzione, unitamente alla preclusione all’esercizio di mezzi di tutela giurisdizionale – per le ragioni dianzi illustrate e in considerazione della natura giurisdizionale di tale organo, affermata nelle citate pronunce, e della non definitività delle decisioni di ammissione della richiesta referendaria, non sottoponibili quindi a revocazione – comporta che il corretto esercizio dei poteri da parte dell’ufficio, comunque vincolati al rispetto della legge ed all’applicazione della stessa in senso costituzionalmente orientato, non sia sindacabile innanzi allo stesso o a un diverso giudice, non essendo esperibili mezzi di tutela – in disparte il potere dell’ufficio, sinora non esercitato, di sottoporre al vaglio di costituzionalità la legge n. 352 del 1970 – nonostante che la formulazione del quesito referendario, di competenza di tale ufficio, assuma rilevanza centrale nell’ambito del procedimento referendario, quale istituto di democrazia diretta, anche in relazione ai principi di libertà del voto e di corretta informazione e nonostante che il sistema così delineato susciti perplessità in ordine alla sua compatibilità costituzionale.

         Aggiungasi che se, per come sostenuto dalla difesa delle resistenti amministrazioni, l’articolo 16 della legge n. 352 del 1970 fa riferimento a ipotesi di modifiche puntuali e limitate – essendo stato concepito per tali ipotesi – avviene che nei diversi casi in cui la legge da sottoporre a referendum costituzionale rechi contenuti ulteriori rispetto alla revisione costituzionale l’individuazione del quesito non discende più in modo automatico dalla legge, ma deriva da un’attività di tipo interpretativo dell’ufficio centrale del referendum, il quale si inserisce nel procedimento referendario senza che la relativa attività decisoria sia in alcun modo sindacabile, realizzandosi un unico grado di giudizio in materia di procedure referendarie.

         Il vuoto di tutela che viene a determinarsi, anche a fronte di seri dubbi di costituzionalità del complessivo sistema, non è in alcun modo rimediabile dal giudice adito, neanche in via interpretativa, essendo a tal fine necessario un intervento della corte costituzionale – non azionabile in questo giudizio per difetto di rilevanza – o un intervento normativo sulla disciplina vigente.

         Né, al fine di legittimare il quesito così formulato, può essere utilmente invocata la prassi, richiamata dalla difesa delle resistenti amministrazioni, in base alla quale anche nei precedenti referendum costituzionali del 2001 e del 2006 i quesiti erano riferiti a leggi costituzionali nella loro interessa e senza indicazione degli articoli della costituzione da modificare nonostante venissero in rilievo norme di revisione costituzionale, non costituendo tale prassi una fonte del diritto e tenuto conto che le leggi sottoposte a referendum costituzionale facevano riferimento – contrariamente al caso in esame – al titolo della costituzione da modificare e recavano, per gli altri profili, un titolo cosiddetto «muto».

         Né può condividersi quanto affermato dalla difesa delle resistenti amministrazioni circa le conseguenze sulla determinazione del quesito referendario – con opzione per la formula riferita alle leggi costituzionali – della riconducibilità delle leggi di revisione costituzionale al più ampio genus delle leggi costituzionali, posto che tale comune appartenenza rileva sul piano delle fonti del diritto, ma non può incidere, elidendone la differenza, sul contenuto sostanziale delle norme, se di revisione della carta costituzionale o meno, altrimenti vanificandosi lo stesso articolo 138 della costituzione, nonché l’articolo 16 della legge n. 352 del 1970 che vi dà attuazione, che distinguono tra leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali sulla base del loro specifico contenuto, distinzione (peraltro contenuta nella legge n. 352 del 1970 sia all’articolo 16 che all’articolo 4) che non avrebbe ragion d’essere alla luce della suggerita equiparazione tra le due categorie invocata da parte resistente.

         Il rilevato vuoto di tutela, lamentato dagli stessi ricorrenti, non può, inoltre, essere colmato attraverso il sindacato del mancato esercizio, da parte del presidente della repubblica, del potere di intervento o del potere di rinvio degli atti ai fini del loro riesame, rientrando tali prerogative, laddove esercitabili, tra quelle di esclusiva spettanza del presidente della repubblica, in alcun modo sindacabili o sollecitabili in sede giurisdizionale in quanto espressione del ruolo costituzionale di tipo obiettivo e di garanzia svolto dal presidente stesso quale garante dell’ordinamento costituzionale.

         In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione, il che, nel rendere irrilevante ogni altra questione di tipo processuale, preclude altresì la possibilità di indicare, ai sensi dell’articolo 11 del codice del processo amministrativo, un diverso giudice nazionale presso il quale riproporre la controversia.

         Tenuto conto delle peculiarità che connotano la delicata vicenda in esame e dell’assenza di precedenti in materia di referendum costituzionale, sussistono ragionevoli motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il tribunale amministrativo regionale per il Lazio Roma, sezione seconda bis, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 10984/2016 R.G., come in epigrafe proposto, trattenuto per la decisione ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, così statuisce: lo dichiara inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione; compensa tra le parti le spese di giudizio.

         Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

         Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 novembre 2016 con l’intervento dei magistrati: Elena Stanizzi, presidente, estensore; Antonella Mangia, consigliere; Antonio Andolfi, primo referendario.

  1. 11662/2016 REG.PROV.COLL.
  2. 10984/2016 REG.RIC.

Dal quotidiano La Certezza nn. 89-92 (dal 6 al 9 dicembre 2016)