Pure in questi giorni drammatici non mancano uomini politici con un certo umorismo. Infatti hanno seriamente proposto i buoni del tesoro con la scritta «esenti da ogni imposta presente e futura», il reddito universale per diritto di nascita, il ritorno alla lira per le monete e i titoli pubblici.
Un tempo sui titoli del debito pubblico c’era già scritto che non erano tassati né lo sarebbero mai stati in futuro. Insomma che la carta in cui venivano stampati doveva considerarsi inattaccabile dai tributi ed incorruttibile più dell’oro. Sappiamo come andò a finire. L’inflazione portò fino al 21 per cento l’interesse su quei titoli, che di fatto perciò non rendevano quasi nulla. Persino le lire metalliche scomparvero, sostituite da miniassegni in cartaccia che le banche emisero per disperazione e diventarono l’emblema della malattia finanziaria che devastava lo Stato, costretto pure a pagare la scala mobile con speciali buoni del tesoro. L’esenzione fiscale è diventata dunque una promessa mancata. La fame di soldi dello Stato, permanendo insaziabile, ha imposto la tassazione dei prestiti concessi da investitori colpevoli d’aver confidato nella parola di un debitore inaffidabile. Perché mai dovrebbero prestar fede adesso al debitore meno credibile d’allora? Mai come nei confronti dello Stato italiano vale il proverbio «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio».
Quanto al reddito universale per tutti, alla stregua di un diritto di genitura, è l’ennesima guittezza d’avanspettacolo a prezzi popolari. Non meriterebbe neppure una menzione se non fosse che troppi estimatori di tal genere di «performance» sono davvero convinti che sia possibile spargere a piene mani, come i gigli di Virgilio, redditi monetari né prodotti né guadagnati, addirittura mettendoli nella culla di ogni neonato come regalo di nascita. Prendendoli a chi e da cosa? Questo i comici non lo spiegano, appagati delle risate e degli applausi alla fine della prestazione.
Al contrario del reddito universale, il ritorno alla lira e ai titoli pubblici denominati in lire merita l’attenzione generale, e pure qualcosa di più. Parliamo infatti del vitale sostentamento degl’Italiani, cioè della loro reale esistenza presente e futura, della loro sorte individuale e collettiva nella deprecata ipotesi che un governo folle, abbandonando l’euro, precipitasse la nazione all’inferno.
Negli ultimi lustri di debito crescente, reddito stagnante, produttività arrancante, la sicurezza economica ha potuto giovarsi della stabilità dell’euro. Nelle presenti condizioni, lasciare adesso la moneta comune e tornare alla lira innescherebbe una distruttiva inflazione, falcidiando i risparmi, gli stipendi, le pensioni degl’Italiani. Chi cambierebbe i cari vecchi euro nelle nuove lire fruscianti ma inconsistenti? Quante costrizioni, restrizioni, vessazioni dovrebbe esercitare lo Stato contro i propri cittadini per vincerne l’inevitabile riluttanza ad accettare le lire al cambio prescritto con l’euro, ad impiegare lire svalutate, a non tesaurizzare gli euro in ogni modo, a non esportarli? Il controllo del tasso di cambio obbligatorio prefissato, per quanto poliziesco e occhiuto, non funzionerebbe. A conferma del vero, negletto, significato della legge di Gresham, la moneta buona (l’euro) scaccerebbe la cattiva (la lira), come nell’Unione Sovietica dove i compagni dietro l’ipocrita fede comunista nel rublo professavano con fervore la religione del dollaro, cambiato di nascosto a cinque volte il tasso ufficiale.
Infine, una nuova assemblea costituente per riscrivere l’intera Costituzione, tutta quanta! La nostra vecchia Assemblea costituente dovette ricostruire dalle fondamenta lo Stato, disintegrato dalla disfatta nella guerra mondiale e dall’abolizione della monarchia.
A parte ogni altra considerazione, per fondare ex novo o rifondare ab imis uno Stato occorrono buoni instauratori, un Clistene, un Madison, e un’idea di Stato. Né gli uni né l’altra sono distinguibili negli scarabocchi pittorici del nostro sommo astrattista.
Pietro Di Muccio de Quattro
Dal quotidiano Il dubbio di venerdì 17 aprile 2020
Nella foto: James Madison