Appena tre mesi fa si sono celebrati i sessanta anni della repubblica, quando nella stessa tornata elettorale il popolo fu chiamato a pronunciarsi sulla forma di governo e a scegliere i deputati per l’assemblea costituente.
Chiusa definitivamente la stagione monarchica, si avviò il processo di redazione e approvazione della carta fondamentale, che poté entrare in vigore poco più di due mesi prima del centenario dello statuto albertino. Da allora sono fioccate le proposte di modifica della costituzione e il tema del bicameralismo, in particolare, è stato una costante nel dibattito senza tuttavia pervenire a significative innovazioni. Una però è andata subito in porto: oltre alla contrastata legge truffa così chiamata perché attribuiva un premio di maggioranza a chi avesse superato la metà dei voti, si unificò di fatto la durata delle camere in cinque anni, che inizialmente erano sei per il senato. La trasformazione dell’orologio istituzionale toccherà poi i giudici costituzionali, il cui mandato è passato da dodici a nove anni. La composizione dei due rami del parlamento, dove un deputato avrebbe dovuto rappresentare ottantamila elettori e un senatore centosessantamila, è stata determinata nel numero fisso di seicentotrenta e trecentoquindici, rispettando la proporzione con la sola aggiunta dei pochi componenti vitalizi della camera alta.
C’è un articolo, nel testo vigente, che nella sua sinteticità esprime un concetto semplice e chiaro; è l’articolo 70, che si esaurisce in una sola frase: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Sostanzialmente lo stesso, a parte l’attribuzione regia, era l’articolo 3 dello statuto albertino: «Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal re e da due camere: il senato, e quella dei deputati». Il testo riformato, sul quale pende il responso referendario, è di una esasperante lunghezza e complessità che ne denuncia almeno l’incompatibilità formale con uno stile appropriato e sobrio.
La revisione costituzionale, per la prima volta sottoposta a referendum popolare, tocca svariati aspetti dell’ordinamento e formerà oggetto di crescenti dibattiti in prossimità del voto; si profila una trasformazione dello stato nel senso di attenuare il ruolo del parlamento e di potenziare quello del governo in nome della efficienza e snellezza.
Se è vero che i livelli massimi di funzionalità si raggiungono in situazioni autoritarie che non devono scontare condizionamenti democratici di sorta, occorre ammettere che non è stata ancora attinta questa soglia estrema e che possono operare dei meccanismi che garantiscano il controllo dell’esecutivo senza paralizzarne l’attività.