Arcidiocesi di Urbino: ma tutto era già definito da tempo

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Scompare l’arcivescovo ad Urbino. Certo, la «botta» è forte: un radicale mutamento di assetto istituzionale dopo 1600 anni non è cosa da poco. Anche se da tempo ne sono stati avvertiti i segnali, tra i quali, assai significativo, lo spostamento (nel 2000) della Metropolia da Urbino (era stata elevata da Pio IV nel 1563) a Pesaro. La «unione» delle due diocesi era programmata da lustri e formalmente perfezionata da mesi. Quando nel dicembre scorso mi recai dal cardinale Giovanni Battista Re, decano del sacro Collegio, per ribadire le motivazioni, documentazione del Comitato «Pro nuovo Arcivescovo» alla mano, a favore del mantenimento ad Urbino di un arcivescovo, mi vennero esposti con grande garbo gli argomenti che da decenni Dicastero dei vescovi e Conferenza episcopale italiana erano venuti elaborando ed applicando in tema di riduzione delle diocesi italiane.

Solo nel biennio 2021-2022 ben tredici sono state le unioni «in persona episcopi» deliberate e rese pubbliche. Tra queste Città di Castello e Gubbio, dal 7 maggio 2022. Il 27 giugno 2020 era toccato alle diocesi Camerino-San Severino e Fabriano-Matelica. Comunque, poiché fattore determinante è la densità di popolazione (minimo 100.000 abitanti, e la diocesi di Urbino ne ha solo 51.000), il cardinale Re ritenne di consultare su Urbino l’annuario pontificio, volume che riporta in dettaglio tutti i dati della Chiesa cattolica nel mondo. Nella edizione 2022 nessun cenno alla arcidiocesi della città ducale.

Per scrupolo consultammo la edizione dell’anno precedente, il 2021. Lì l’arcidiocesi urbinate occupava mezza pagina, con tutti i dettagli della sua struttura. Pessimo segnale, dunque, non certo dovuto ad errore data la precisione che caratterizza gli atti vaticani. Cioè, pur non ancora resa pubblica, la vicenda era conclusa, come poi confermato dal silenzio del Dicastero dei vescovi cui avevo chiesto chiarimenti su ciò che ormai più che un sospetto era una certezza

Il cardinale Re mi aveva riferito in circa un’ora di colloquio che da diversi anni, quand’egli era ancora a capo della Congregazione dei vescovi, il problema delle unioni delle diocesi era all’ordine del giorno. Il cammino della Chiesa è prudente, lento, ma inesorabile. Per parte mia ho esposto che le caratteristiche e la storia di Urbino potevano consentire una eccezione. Ma dall’insieme del contesto ho percepito che un intervento del cardinale, a questo punto, ben difficilmente avrebbe potuto avere luogo.

In effetti fin dalle lezioni di diritto ecclesiastico impartitemi alla Sapienza» da Arturo Carlo Jemolo appresi che i trattati lateranensi dispongono che il numero delle diocesi italiane debba coincidere con il numero delle province. Ma al periodo dei miei studi universitari una sola diocesi era stata soppressa. E per di più una nuova era stata istituita. Val dire che, finché ha potuto, la Chiesa ha «tenuto».

Già però Paolo VI nel 1964, il 14 aprile, all’Assemblea dei vescovi parlò di «eccessivo numero delle diocesi». Il 23 giugno del 1966 affrontò di nuovo l’argomento sempre all’Assemblea della CEI: «Sarà quindi necessario ritoccare i confini di alcune diocesi, ma più che altro si dovrà procedere alla fusione di non poche diocesi, in modo che la circoscrizione risultante abbia un’estensione territoriale, una consistenza demografica, una dotazione di clero e di opere idonee a sostenere un’organizzazione diocesana veramente funzionale e a sviluppare un’attività pastorale efficace ed unitaria». La CEI costituì una commissione detta «dei Quaranta» che elaborò un progetto consegnato nel 1968 alla Congregazione per i vescovi. Soltanto dopo quasi venti anni si giunse a dare concretezza alle indicazioni di Paolo VI con la «riorganizzazione» del 1986: vennero «tagliate» intorno alle cento unità con l’accorpamento di diverse diocesi di dimensioni molto limitate.

Papa Francesco il 23 maggio 2013, due mesi dopo la sua elezione, nel primo incontro che ebbe con i vescovi italiani, riprese il tema perché si ponesse mano al «lavoro di ridurre il numero delle diocesi tanto pesanti». Nel 2016 la Congregazione per i vescovi chiese alle Conferenze episcopali regionali di inviare un parere sul progetto di riordino delle diocesi alla Segreteria generale della CEIAvvenire», 20 maggio 2019). Dinanzi alla assemblea dei vescovi italiani, il 21 maggio 2018, il Pontefice definì la riduzione delle diocesi «un’esigenza pastorale studiata e approfondita più volte».

E con il 2019 venne emessa una serie di provvedimenti per le «piccole» diocesi partendo da rinunce dei vescovi e mancato rinnovo delle loro nomine. Così il numero delle 226 diocesi italiane cominciò a scemare pur restando alto rispetto al resto del mondo: ad esempio in Germania sono 27 (per 25 milioni di fedeli), un centinaio in Francia (per 47 milioni di battezzati), 70 in Spagna (per 42 milioni di cattolici). Ogni fattispecie venne sottoposta ripetutamente al vaglio degli organi della Conferenza episcopale – puntualizza il cardinale Re – secondo i criteri dell’entità della popolazione, della diminuzione del clero, della difficoltà se non della impossibilità per le piccole diocesi di attendere alle molteplici funzioni da assolvere nonché di provvedere alla composizione degli organi ad esse preposti e di acquisire risorse adeguate. E così via.

Nel discorso pronunciato ad Oristano il 1° novembre 2019 il nunzio apostolico Tscherrig ribadiva: «In ogni diocesi siamo obbligati a unire parrocchie, con sacerdoti che guidano due, tre, cinque comunità. Questo processo è dato anche dal numero sempre più esiguo di vocazioni, dall’invecchiamento del clero, dalla diminuzione della popolazione. Il Papa prende atto di questo e chiede che si possa fare anche per le diocesi». È dunque chiaro che il mancato rinnovo dell’arcivescovo di Urbino parte da lontano, da molto lontano.

Come pure la «desertificazione» del territorio di Urbino ha radici remote. Non vi giunge più il treno, aziende prestigiose hanno cambiato località; non parliamo delle strade: da quella che collega la città ducale a Pesaro alla telenovela della «Fano-Grosseto», alla mancata realizzazione di una arteria di rapido scorrimento con Novafeltria e San Marino, che forse avrebbe evitato la «secessione» in favore di Rimini dell’Alta Valmarecchia. Traguardo nei secoli passati che non riuscì ai riminesi Malatesta proprio per la difesa assicurata da Urbino a quel territorio e a San Marino. Pur non dovendo scordarci che ora siamo tutti «europei». Per un soffio è stato salvaguardato il tribunale. Tutti fattori che hanno condotto ad un deperimento demografico riducendo a 51.000 unità il popolo della arcidiocesi: entità troppo lontana dal minimo richiesto dei 100.000.

Uno dei simboli di tale deperimento è la parrocchia di San Giovanni in Ghiaiolo la cui chiesa del XIV secolo, abbandonata, è man mano crollata, i cui resti sono stati poi avvolti dalla vegetazione. Ne è sopravvissuto il cimitero – oggetto di una interrogazione parlamentare di Carlo Bo – per la fattiva azione restauratrice dell’allora vice sindaco Lino Mechelli. Però, pur nella forte delusione, i cattolici debbono considerare che una cosa è la fede, che può essere ben praticata anche al di là delle strutture (addirittura ingessature della Chiesa», le definiva padre Balducci), che sono certo la «medicina, non il nutrimento». Altro sono le sconcertanti appropriazioni interessate del cristianesimo, funzionali al prestigio, al campanilismo, alle istituzioni.

Certo, pure il disagio laico per il venir meno di un «assetto strutturato» merita considerazione in quanto segno ulteriore e preoccupante del decadimento dell’entroterra. Tuttavia a fronte di ciò la reazione emotiva resta sterile. Mentre, nell’ottica laico-amministrativa, sarebbe stata una prospettiva da approfondire, pur con tutte le cautele, una diversa configurazione delle delimitazioni territoriali diocesane.

Già, con acuta lungimiranza, il cardinale Palazzini, come ricorda Alberto Mazzacchera, aveva suggerito – inascoltato – l’unione di Cagli («ora ridotta al rango di parrocchia di periferia di Fano») con Urbino. La nuova divisione dell’area provinciale – molto grosso modo perché l’Italia volge ad oriente – per paralleli (costa ed entroterra) invece che per meridiani (Fano e il suo interno, Pesaro e il suo interno) salvaguarderebbe Urbino e le esigenze della Chiesa. Ipotizzare dunque una diocesi per la costa (le popolose Pesaro e Fano distano dieci chilometri) ed una per l’entroterra rappresenta anche uno stimolo per l’autorità civile a migliorare i collegamenti transvallivi, cuore di sviluppo economico. Una… «rivoluzione»? Può darsi. Ma l’essenza del cristianesimo è «rivoluzione» (senza armi)!

Non siamo al «Grande Inquisitore» di Dostoevskij, nondimeno i due arcivescovi interessati (Pesaro e Urbino) sono oggetto di dure contestazioni. Come hanno reagito? Monsignor Salvucci ha «accettato» (eppure non c’era modo di comportarsi diversamente) la proposta del Papa «solo nell’ottica del servizio». Invece si trova –quale punto terminale di una vicenda partita da livelli ben superiori a lui e la cui genesi affonda nei decenni – pesantemente bersagliato pur entrando in gioco solo in veste di destinatario di una ulteriore, gravosa incombenza. Mentre, pur nella amarezza del momento, l’arcivescovo Tani assicura: «Lo aiuterò facendo ciò che mi chiederà», rivelando spirito di obbedienza e lealtà.

Esempio di dignità e compostezza, non sempre presenti nella stessa Chiesa come dimostra la triste vicenda delle indicibili – specie per il tempo e per il ruolo del soggetto – esternazioni di Georg Gaenswein. Per cui Salvucci e Tani non meritano la sorte di «capri espiatori».

Giorgio Girelli

Coordinatore del Centro Studi Sociali «Alcide De Gasperi»

Nella foto: l’ambasciatore Girelli con il cardinale G.B. Re