L’astro nascente di Hollywood

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Di recente, a Hollywood, ho avuto l’occasione di fare una chiacchierata con la giovanissima attrice romana Giulia Asquino.

Se non l’avete ancora sentita nominare, è solo questione di tempo prima che la vediate impreziosire il prossimo film indipendente con la sua interpretazione vera, autentica.

Ma non vi fate incantare dai suoi occhi luccicanti di gioia e di entusiasmo. Infatti Giulia, di recente diplomatasi al prestigioso conservatorio Stella Adler di Los Angeles, è perfettamente in grado di esprimere i suoi lati più oscuri.

Anzi anela a farlo sempre di più, dopo una lunga e tortuosa formazione da ballerina classica e contemporanea presso il Balletto di Roma, durante la quale gli unici ruoli a disposizione le imponevano costantemente di vestire i panni di donna fragile ed eterea. Ora finalmente può gettare la maschera ed esprimersi liberamente sui set della città delle star per eccellenza.

Che lavoro facevano i tuoi e che ricordi hai dell’infanzia?

Non appena diplomata, mia madre si è lanciata anima e corpo nell’insegnamento. Da quindici anni, lavora nello stesso asilo di Roma. La definirei umile, affettuosa e generosa. Lati della personalità che sento di condividere.

Mio padre ha una formazione tecnica. Lavorava ai macchinari utilizzati per le mammografie, prima di passare al reparto tecnico dell’azienda che allora si chiamava, «SIP» (oggi «Gruppo TIM»). È sempre stato un grande lavoratore, tenace, anche se un po’ avaro.

Penso di avere preso il meglio da entrambi. Da un lato, sono aperta e generosa; dall’altro, sono risoluta e coraggiosa.

I primi ricordi d’infanzia non sono certo felici, dato che la tensione in casa era palpabile. Quando avevo otto anni, i miei genitori hanno divorziato. Da allora in poi mi è toccato spesso fare le veci dell’uomo di casa e risolvere i problemi pratici che si presentavano.

La mia situazione familiare ha avuto ripercussioni dirette sul mio carattere, che da espansivo si è trasformato in timido e introverso, mentre il mio nucleo familiare si dissolveva.

L’arte, però, mi ha salvata. Ricordo che, a tre anni, chiesi a mia madre di poggiare la videocamera sopra lo stereo. Non appena la musica partì, iniziai a ballare mentre mettevo in scena una storia. Creai una vera e propria coreografia.

Definiresti, quindi, la danza il tuo «primo amore»? Cosa ti ha spinta in seguito a lasciare?

A cinque anni ho iniziato a frequentare una scuola di danza vicino casa. Scoprii una dimensione alternativa in cui potevo esprimermi attraverso il corpo.

Mia madre mi ha raccontato che mia nonna rimase colpita dalle mie doti interpretative in occasione di una lezione di danza aperta ai familiari. Mentre ballavamo, dovevamo rappresentare il gesto del ricamo. Nessun’altra, eccetto me, fu in grado di esprimere quell’azione in maniera convincente.

Fino ai dodici anni, ho proseguito la formazione in quella piccola scuola. Simultaneamente, dagli otto ai tredici anni, ho studiato canto presso il conservatorio Santa Cecilia di Roma.

Raggiunta la pubertà, ero più in carne e le prime audizioni di danza non andarono come speravo. Finché, a quattordici anni, dopo essere stata notata durante uno stage estivo, fui ammessa al Balletto di Roma, dove iniziai a studiare danza classica e contemporanea. A quel punto scelsi di interrompere canto al conservatorio, per non disperdere le energie.

Per la prima volta, però, le diversità fisiche venivano rimarcate durante le lezioni. Gli insegnanti non mancavano di additarti e di farti sentire «diversamente abile». Da allora in poi, si è insinuato in me un disagio legato all’inadeguatezza fisica, su cui lavoro tuttora.

Per giunta, il carico di studio del liceo classico era pressoché impossibile da gestire, dato che, oltre alle quattro ore giornaliere di danza, vi erano spesso saggi per cui serviva una preparazione extra.

Dopo essermi diplomata, una mia amica ballerina mi chiese di accompagnarla a Milano per una audizione con una compagnia statunitense. Il destino ha voluto che scelsero me e non lei. Dovevo, però, prima terminare il liceo e mi offrirono di partecipare ad un festival che si sarebbe svolto l’anno seguente a New York.

Io, i miei e mia zia partimmo per gli Stati Uniti. Se da una parte ero eccitata, dall’altra non mi sentivo soddisfatta del traguardo raggiunto.

Il mio incontro con il teatro fu del tutto casuale. In un centro commerciale di Roma, c’era uno stand che promuoveva un corso di teatro e danza con una immagine di Kledi sulla locandina. Colpita dalla foto di uno dei miei ex insegnanti, mia madre si fermò e la signora da dietro il banchetto si avvicinò e mi propose di fare una lezione di prova.

Riluttante, andai nel piccolo teatro di quartiere. Il lavoro sul corpo e sulla voce aveva un che di familiare, ma allo stesso tempo di insolito e strano.

Uno degli esercizi di coppia consisteva nell’improvvisare una situazione. Mi immaginai una giungla, mentre il mio compagno scelse di interpretare il ruolo di un poliziotto. L’assurdità della situazione mi divertì molto.

A quel punto, l’insegnante volle mettermi alla prova. Dovevo leggere e interpretare il passo di un libro di narrativa, come se stessi raccontando la storia. Una prima volta non commentò, poi me lo fece rileggere. Il suo sguardo si illuminò, compiaciuto.

Sono tornata solo una seconda volta in quel teatro, ma il mio percorso di vita si sarebbe fatto chiaro di lì a poco, grazie all’incontro con una ragazza diplomata al Teatro Piccolo di Milano, che mi parlò delle migliori scuole di recitazione all’estero.

Scelsi il corso trimestrale presso la Susan Batson Studio di New York. La lontananza da casa mi spaventava, però non potei resistere al fascino esercitato dal mondo nuovo della recitazione.

Come è stato l’impatto con lo stile di vita e soprattutto il sistema di insegnamento statunitense?

Il 4 febbraio 2019 ha avuto inizio la mia avventura statunitense. Avventura nel vero senso della parola, dato che la mia coinquilina mi diede buca. Oltre a ciò la mia carta di credito non era abilitata all’estero.

Stare senza alloggio e senza soldi al freddo di New York avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una esperienza da incubo ed invece la generosità dei newyorchesi mi stupì. A partire dal tassista che accettò una somma inferiore in euro, fino ad arrivare al concierge dell’hotel che mi diede venti dollari per la cena.

Dopo quel battesimo del fuoco, iniziarono le lezioni alla Susan Batson. Durante il riscaldamento, l’insegnante Carl Ford ci faceva sedere in cerchio e faceva partire una canzone per ciascuno di noi. A turno, dovevamo esprimere con il corpo ciò che stavamo provando in quel momento.

Ai primi tentativi, la pronuncia in inglese mi bloccava. L’insegnante, però, ci incoraggiava a sbloccarci, impiegando la nostra lingua madre. Con il tempo ho capito che l’imperfezione e la diversità nel modo di parlare ci rendono unici.

Il 7 marzo 2019 è stata una data fondamentale per il mio percorso artistico. Come ogni giovedì, la nostra lezione consisteva nella simulazione di un provino, telecamere incluse.

Ospite di quella settimana era Alexandre Rockwell, regista indipendente noto anche per aver diretto un episodio della commedia nera Four Rooms (1995), insieme con Quentin Tarantino, Robert Rodriguez e Allison Anders.

Al termine della scena, il cineasta si è complimentato con me per la mia espressività, dicendomi che riuscivo a parlare con gli occhi. Più tardi, l’insegnante stesso mi disse: «Giulia, sei un dono».

Il sabato seguente, Carl mi ha confidato che Alexandre era convinto che studiassi recitazione da almeno otto anni. Una volta saputo che avevo iniziato appena due mesi prima, si era notevolmente meravigliato e disse che prevedeva per me una carriera di successo.

Questo inaspettato riconoscimento del mio talento mi ha permesso di spiccare il volo, da lì in avanti.

Ci parleresti del successivo capitolo di formazione professionale e di come ti abbia aperto le porte di Hollywood?

Dopo essermi diplomata alla Susan Batson, la pandemia ha sconvolto il pianeta e sono dovuta tornare da mia madre a Roma.

Ho iniziato a frequentare alcuni seminari online, organizzati dalla Guildhall School of Music and Drama di Londra, nei quali ho approfondito la preparazione della scena e l’interpretazione di Shakespeare.

In seguito, ho avuto l’occasione di frequentare un corso online di un mese tenuto da Ron Burrus della Stella Adler. Il loro metodo mi ha affascinato molto.

Nello stesso tempo, mi sono esercitata direttamente con tre casting director di fama internazionale: Jane Jenkins, Judy Henderson e Beatrice Kruger. Oltre ad affinare la tecnica, lo scopo principale era quello di farmi conoscere.

Ricordo che la Jenkins mi dichiarò: «Mi è arrivato tutto quello che volevi dire». Questo suo commento mi ha dato una notevole soddisfazione.

Non appena il lockdown si è allentato ed hanno riaperto i confini, sono partita per Londra, dove ho potuto tra l’altro appoggiarmi ad alcuni parenti residenti lì. Nel mese trascorso da loro, ho recitato nel cortometraggio A Way Out, basato su una mia idea.

Si approssimava, però, la Brexit e sono dovuta tornare a Roma per avviare le pratiche del presettled status, così da tenermi aperta la possibilità di trasferirmi a Londra. Quando ho ricevuto la notifica dell’approvazione della mia domanda di residenza, ero al settimo cielo.

Da settembre 2020 a maggio 2021, di nuovo in Inghilterra, mi sono riavvicinata al canto, specializzandomi nel musical grazie a dei corsi online del National Theater. 

A gennaio, notai il bando di partecipazione al conservatorio Stella Adler di Los Angeles, del cui metodo avevo avuto un assaggio mesi prima.

I provini di Londra si suddividevano in tre fasi: monologo, scena e colloquio con il direttore della scuola e il responsabile casting delle audizioni. Giunta all’ultima prova, mentre discorrevo del mio percorso formativo, mi accorsì che la passione per la professione traspariva dalle mie parole. La loro reazione non mi lasciò alcun dubbio sull’esito finale.

Quando ripenso agli anni di danza e di canto, mi accorgo di come mi abbiano resa un’attrice migliore, più completa. Ancora oggi mi immedesimo spesso in un personaggio mediante il lavoro sul corpo, specialmente quando sento che l’emozione che devo trasmettere è molto lontana dalla mia sensibilità.

L’8 giugno 2021 è ufficialmente iniziata la mia avventura hollywoodiana.

Hai da poco esordito nel lungometraggio indipendente americano – attualmente in post produzione – Our Christmas House, della giovane regista Annabel White. Ci parleresti di questa esperienza?

Annabel è rimasta colpita dal mio modo di comportarmi sul set, dalla mia disciplina e professionalità. Amo fare domande ai registi per capire meglio quello che cercano di ottenere in una determinata scena.

Nel mio caso, dovevo sbattere dei fogli sul tavolo, mentre mi rivolgevo ad un personaggio maschile. Ho chiesto alla regista quale fosse il motivo della mia rabbia: ce l’avevo con me stessa o con l’altra persona? Lei si è presa un po’ di tempo per rifletterci, prima di darmi una risposta.

Alle volte, i giovani registi sono troppo presi dalle scene chiave e si dimenticano di porre la giusta attenzione ai dettagli.

Ma è proprio nei dettagli che si distillano le emozioni.

Valerio Viale

Nella foto: Giulia Asquino