Nessun obbligo di dimissioni per il governo nonostante la personalizzazione impressa su un terreno che non riguarda la funzione esecutiva ma appartiene al popolo e alle camere che lo rappresentano in un regime di democrazia parlamentare. Il presidente del consiglio, appresi i risultati del referendum che hanno sancito un chiaro no a un pacchetto riformatore eterogeneo, ha però dichiarato a caldo che rassegnerà subito le proprie dimissioni irrevocabili.
Questa impostazione è errata adesso come lo è stata all’inizio nel momento in cui l’azione di governo si è estesa alla trasformazione generale dell’ordinamento costituzionale e su questa materia si è voluto forzare la volontà del parlamento raccogliendone il consenso con un esiguo margine di voti. Ma proprio questo scarto minimo dimostrava che la divisione si sarebbe riprodotta nel ricorso diretto alla consultazione popolare e che l’esito sarebbe stato quanto mai incerto.
C’è una cosa che non si può sottacere ed è la pretesa di soggiogare un popolo alla propria volontà suggestionandolo con speranze e paure che non riguardano la dinamica delle istituzioni ma piuttosto il comportamento delle persone che in esse concretamente agiscono. Carlo Marx, nel citatissimo Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, sosteneva che non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. L’Italia di oggi ha dimostrato di essere abbastanza matura per non consentirlo.
Matteo Renzi, all’evidenza, non è Napoleone III e sicuramente non ha mai coltivato propositi autoritari; ma il tentativo di imporre una riforma non adeguatamente condivisa c’è stato e la gente ha capito. Non per questo ha censurato direttamente l’operato dell’esecutivo e men che mai della persona che lo guida. Ha semplicemente ritenuto che la costituzione non si potesse modificare al buio e nel dubbio ha preferito tenersi quella che c’è e che dopotutto in settanta anni non ha provocato alcun disagio: semmai non è stata attuata soprattutto sul piano sociale.
C’è al fondo una questione di metodo di essenziale rilevanza. Se un testo viene elaborato con largo dispendio di tempi ed energie da una parte sola, per giunta supportata da maggioranze fluttuanti e non sovrapponibili ai risultati elettorali, è privo di una accettazione collegiale che il costituente voleva a garanzia delle esigenze democratiche che non appartengono a singoli schieramenti di partiti ma a tutta intera la comunità nazionale
Non è il caso di riesumare facili demonizzazioni che nei fatti sono state chiaramente smentite. In diverse occasioni si sono apportate modifiche al testo costituzionale con la maggioranza dei due terzi che le ha rese definitivamente operative; nulla impedisce che si possa continuare con questo metodo per singoli aspetti. Se davvero c’è l’accordo per abolire il Cnel, consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, si può cominciare da qui e chiudere il discorso con il doppio passaggio parlamentare in tre mesi; bastano sei parole: l’articolo 99 della costituzione è soppresso. Questo può essere un banco di prova rivelatore della sincerità delle posizioni e dello spirito costruttivo che le anima.
Una cosa va ribadita e deve essere chiara: nel nostro sistema è il parlamento che controlla il governo e non viceversa. Non possiamo dire se questo sarebbe potuto accadere con la riforma, ma il semplice pericolo è già una ragione sufficiente per bocciarla nei termini proposti.
Ora è tempo di riprendere il cammino normale che è quello di un governo che continui a governare. Le interpretazioni e strumentalizzazioni dell’esito referendario sono scontate soprattutto nelle prime ore; poi dovranno cedere al recupero della moderazione e della saggezza. La lezione in fondo è tutta qui: giusto cambiare e progredire, ma secondo regole ben definite e con dibattiti più concreti e pacati, evitando quelle arene chiassose che potranno catturare consensi estemporanei ma di per sé, a ben vedere, non portano nulla di buono.
Lillo S. Bruccoleri
N°88 lunedì 5 dicembre 2016